Ultima modifica: 30 Maggio 2016

Ted Hughes

Ugo Gervasoni – Le voci dei maestri

Ted Hughes

by (John) Edward McKenzie Lucie-Smith, bromide print, May 1970

(1930 – 1998)

Il 23 febbraio 1957 un telegramma annunciò  a Ted Hughes che la sua raccolta poetica dal titolo The Hawk in the Rain (Il falco nella pioggia) aveva vinto il concorso della 92nd Street Y: la giuria era composta dai prestigiosi poeti Wystan Hugh Auden, Marianne Moore e Stephen Spender. Il premio consisteva nell’immediata pubblicazione del libro per i tipi della casa editrice americana Harper & Bros, e nella possibilità di scegliere anche un editore inglese. Ted Hughes, d’accordo con la moglie Sylvia Plath, anch’essa poetessa, che aveva personalmente curato la raccolta del marito, scelse la Faber and Faber, nella cui redazione lavorava allora T. S. Eliot, uno dei monumenti della poesia del XX secolo, non solo di lingua inglese. Nella lettera di accettazione, l’editore confidava a Ted Hughes che “Mr. Eliot mi ha pregato di dirle che ha letto personalmente e con grande piacere le sue poesie e che le porge le più vive congratulazioni.”

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The Hawk in the Rain contiene alcune delle poesie più giustamente famose di Ted Hughes, come The Thought-Fox (La volpe-pensiero), The Jaguar (Il giaguaro),  Horses (Cavalli), l’inquietante The Martyrdom of Bishop Farrar (Il martirio del vescovo Farrar), oltre a quella che dà il titolo al libro e che risplende, in apertura del libro,  per alcune delle caratteristiche stilistiche tipiche di Hughes. I temi e gli stilemi dell’arte di Ted Hughes sono evidenti e bene delineati fin dal suo esordio, come se fossero il frutto della magica armonia di una forza espositiva naturale e irrefrenabile e di una cosciente volontà formativa. Viene sovente abbandonato il punto di vista antropocentrico (procedimento che attingerà ad uno dei suoi vertici nella poesia Hawk Roosting [Falco appollaiato] nella successiva raccolta Lupercal, del 1960), per potere cogliere la vastità e la alterità del mondo non umano. La civiltà, sostiene Hughes, non è che una delle modalità della organizzazione della vita sul nostro pianeta: oltre i suoi confini operano forze che non le sono debitrici, che hanno il diritto di prosperare libere dal suo controllo, che, invero, si avvalgono di strutture di percezione e di comunicazione e di valori che nulla hanno a che vedere con quelle che per gli uomini sono usuali. Hughes suggerisce quelle presenze caricando la sua lingua di una forza espressiva insolitamente ricca, non solo grazie agli artifici stilistici giocati su assonanze e allitterazioni e intrecci di rime, ma anche deformando magistralmente la sintassi, per rendere tangibile l’affiorare di ciò che non è umano. Nella poesia The Hawk in the Rain, ad esempio, l’alterità del falco rispetto all’uomo è evocata non soltanto presentando nel primo verso la figura del poeta che arranca faticosamente nel campo fangoso battuto dalla pioggia, sentendo che i suoi piedi sono inghiottiti ad ogni passo “dall’ingorda bocca della terra,” mentre il, falco galleggia senza sforzo nell’aria, tutt’uno con il suo occhio acutissimo e immobile; ma anche grazie ad una costruzione verbale che tende fino quasi alla lacerazione le connessioni verbali e logiche: l’io è “stordito, ghermito boccone di sangue che conta l’ultimo istante nelle fauci della terra” (Bloodily grabbed dazed last-moment-counting / Morsel in the earth’s mouth), pur aspirando al fulcro di violenza là in alto che per il falco è il naturale sostegno. Raramente la lontananza tra la greve materialità dei corpi e la leggerezza dello spirito è stata indicata all’attenzione del lettore con più felice appropriatezza.

horses

Tra le poesie che con più frequenza rileggo è Horses (Cavalli), che ricrea un momento epifanico: al poeta, che ascende una collina della brughiera nelle ore che precedono l’alba, quando la brina si stringe sulle cose come una morsa e il respiro forma “statue contorte” nell’aria di ferro, d’improvviso appaiono i cavalli, “enormi nel grigio denso – dieci, vicini – / immobili come megaliti.” Il subitaneo sorgere degli animali-statue di fronte all’uomo che faticosamente avanza nella brughiera in cui null’altro si muove, è una esperienza religiosa, dentro e fuori del tempo, il momento privilegiato in cui le cose ordinarie lasciano intravedere l’arcana natura sacra della vita. Chi ne è testimone sembra sul punto di cogliere il mistero, e comprende allora più a fondo i versi di Eugenio Montale che da tempo ama ripetersi, dalla terza strofa di una poesia che è delle più belle della sua opera, I limoni:

Vedi, in quei silenzi in cui le cose

s’abbandonano e sembrano vicine

a tradire il loro ultimo segreto,

talora ci sia aspetta

di scoprire uno sbaglio di Natura,

il punto morto del mondo, l’anello che non tiene,

il filo da disbrogliare che finalmente ci metta

nel mezzo di una verità.

Lo sguardo fruga d’intorno,

la mente indaga accorda disunisce

nel profumo che dilaga

quando il giorno più languisce.

Sono i silenzi in cui si vede

in ogni ombra umana che si allontana

qualche disturbata Divinità.

A Ted Hughes nocquero non poco lo scalpore e i pettegolezzi generati dalla sua tormentata relazione con Sylvia Plath, che si concluse con il drammatico suicidio di lei. Il matrimonio era già in crisi quando, nelle prime ore dell’11 febbraio 1963, la Plath, debilitata dalla sua personale instabilità psicologica e dalle difficoltà della relazione con il marito, tornò nel suo appartamento di Londra, sigillò la camera dei due piccoli figli lasciando un poco di pane e di latte accanto ai lettini, scese nella cucina, si inginocchiò davanti al forno, aprì il gas e vi infilò la testa. Fu ritrovata, troppo tardi, la mattina seguente. Ted Hughes accettò la sua parte di responsabilità (“Voglio assumermi tutta quanta la mia parte di colpa, ma voglio anche vivere e fare in modo che questi bambini non ne portino i segni per sempre”, scrisse in una lettera), ma l’astio di chi non sa e si diletta di commenti velenosi, lo perseguitò fino alla fine.

ted and sylvia

(Un momento felice di Ted e Sylvia)




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